Pecorino romano: una specie in estinzione?
Continua a calare il fatturato annuo (-5%;, si salva solo l'export (+16%)
La concorrenza di un prodotto similare, i rincari, la mancanza di personale: sono queste le tre principali cause alla base della crisi di uno dei più rinomati prodotti del Centro Italia. Il Consorzio del Pecorino Romano Dop ha lanciato l'allarme riguardo alla possibile chiusura di cinque aziende locali e di 450 allevamenti di pecore, quando il fatturato del 2022, supera i 20 milioni di euro.
Secondo i dati del Consorzio, nel 2022 sono state prodotte 32,6 tonnellate complessive (-5% rispetto al 2021) di Pecorino Romano Dop per un ritorno di 302 milioni di euro. L’80% degli incassi deriva dall’export, in calo al -8% nei volumi, pur con un +16% di valore aggiunto ottenuto con l’aumento del prezzo e il cambio euro-dollaro favorevole, che ha reso gli Usa il principale paese importatore.
“È dai primi del Novecento che i casari romani, visti gli scarsi risultati delle loro mungiture, si sono spostati sull’isola (la Sardegna, ndr)”, afferma il presidente del Consorzio Gianni Maoddi. “I programmi di cucina e la pandemia oggi hanno risvegliato l’interesse per i fornelli, ma l’apertura di nuovi canali di vendita da sola non colma il divario”.
Il vero cuore del problema, tuttavia, rimane quello del mancato ricambio generazionale: secondo Antonio Parenti, presidente di Confagricoltura Lazio, “quello dell’allevatore è un mestiere duro, senza festività, sempre a contatto con il bestiame", quindi offre "condizioni poco attrattive per i giovani”.
C'è poi l'inflazione: “Se il prezzo del latte è salito dai 60 centesimi al litro nel 2019 a un euro e mezzo di oggi, sulla sua trasformazione gravano maggiori spese energetiche per stoccaggio e refrigeramento”. Senza contare la confusione generata dalla diffusione del cacio romano, recentemente riconosciuto a sul piano legale dalla Corte di Cassazione (leggi notizia EFA News).
EFA News - European Food Agency