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Emilia-Romagna: valore produzione frutticola dimezzato in 7 anni

Crollo verticale per le pere, mentre mele e kiwi compensano un quadro di crisi consolidata

Lo stato attuale della frutticoltura emiliano-romagnola è stato analizzato dall’Accademia Nazionale di Agricoltura che, presso lo stabilimento della Coop. Agrintesa a Bagnacavallo, ha organizzato il convegno “Fruit valley, guardiamo avanti!” per delineare un quadro sintetico della attuale consistenza produttiva delle principali filiere frutticole e delle possibili soluzioni per il rafforzamento della produttività e sostenibilità economica-ambientale.

Dal 2000 al 2020 la regione è stata colpita da un trend molto negativo, che ha visto la perdita complessiva di 30 mila ettari di colture legnose agrarie, di cui 10 mila ettari tra pesche nettarine e pere (rispettivamente -32% e -56%), un tempo il fiore all’occhiello della produzione emiliano-romagnola a livello mondiale. Nel contempo, kiwi, mele e albicocche hanno resistito meglio, seppure con quantitativi minori di terreni coltivati, senza però riuscire a coprire le superfici ormai perdute.

Questa decrescita ha portato, in soli 7 anni, al dimezzarsi del valore produttivo della frutticoltura emiliano romagnola, passata da 320 milioni nel 2017 a 116 milioni di oggi, a fronte di un consumo annuo di circa 15 miliardi di frutta in Italia. L’Emilia-Romagna ha così perso totalmente la leadership nella produzione internazionale di pere, ma al contempo ha sviluppato altre colture, come kiwi e susino le quali, nonostante le difficolta date dalla variabilità di prezzi e l’insicurezza del mercato internazionale, hanno ottenuto nuove quote di mercato.

"Le pere, un tempo eccellenza mondiale, dal 2019 hanno registrato un vero disastro produttivo passando da 500 mila tonnellate annue, alle attuali 100mila", ha riferito Elisa Macchi, direttore del Centro Servizi Ortofrutticoli (Cso). "Questo è successo perché, purtroppo, le pere sono i frutti che maggiormente subiscono gli stress del cambiamento climatico, soprattutto la tipologia abate, subendo malattie come la cimice asiatica che sono state devastanti, a fronte di una scarsa resa varietale. Tale situazione ha portato, dunque, a un drastico calo della superficie, dai 20 mila ettari del 2014 agli 11 mila del 2024, e alla riduzione del potenziale produttivo regionale: oggi l’Emilia-Romagna riesce al suo massimo a produrre non più di 300 mila tonnellate annue". 

"Infine", prosegue Macchi, "la ridotta offerta interna, vede una perdita di quote sui mercati esteri e l’export è sceso da una media di 150 mila tonnellate a poco oltre le 20 mila tonnellate nella campagna 2023/2024. Nel 2023/24 da Belgio e Olanda sono arrivate quasi 57 mila tonnellate (40% del totale) e dalla Spagna oltre 42 mila tonnellate (circa il 30% del totale). Valori mai visti prima”.

“In compenso le mele vanno bene", ha concluso Macchi, "sono 5 mila gli ettari coltivati con una tendenza alla crescita mediante una innovazione varietale molto buona, mentre il pesco è in calo con 7.400 ettari, la metà di 10 anni fa, con -6% di pesche e -2% di nettarine, ma il peso dell’Emilia-Romagna nella produzione di pesche italiane rimane buono (18% pesche e 36% nettarine). Infine, cresce il susino con l’Emilia-Romagna al primo posto in Italia, con 3.800 ettari e il 5% dell’offerta complessiva, essendo l’Italia produttrice per il 10% a livello europeo, dopo la Romania e a pari merito con Spagna e Francia”.

“L’export di kiwi regionale, nel 2023, è stato di 251 milioni di euro, per un valore del 4% del fatturato nazionale e del 41% dell’export complessivo. In regione", ha spiegato Guido Caselli, vicesegretario generale Unioncamere Emilia-Romagna, "la superficie produttiva è di 4 mila ettari, quasi 900 di tipologia gialla, produciamo il 18% del kiwi italiano, e rispetto a 10 anni fa le superfici sono cresciute del 6%. In regione 5 grandi imprese realizzano il 60% della produzione regionale, mentre il resto è suddiviso in produttori più piccoli. Da sempre la Nuova Zelanda è il primo produttore al mondo, ma l’Italia è al secondo posto, col 16% del mercato mondiale. Il primo nostro importatore è la Cina, seguita da Germania e Spagna”. 


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